La “carriera” da un sesso all’altro: la rivoluzione in interiore homine
Elisabetta Frezza
Il sovvertimento dell’ordine stabilito da madre natura, della biologia (letteralmente: il lògos della vita), e dello stesso principio di realtà, è il frutto del delirio di onnipotenza esercitato dai pochi in danno dei molti storditi dal fumo delle parole truccate. Le parole sono il carro in cui si trasportano le idee; e la perturbazione dell’universo linguistico e concettuale, studiata a tavolino nelle centrali di potere sovranazionale, è stata funzionale al cambio di paradigma verso il transumano e il postumano. Vale a dire, verso l’antiumano.
In cantiere da molto tempo, la rivoluzione più intima, profonda e devastante della storia è giunta al suo apogeo grazie al progresso tecnologico e al regresso cerebrale, ambedue ormai fuori controllo.
Il termine “genere” fino alla metà degli anni Sessanta stava a significare un criterio distintivo meramente grammaticale. L’origine della nuova accezione – quella che oggi pervade il lessico corrente, dai trastulli della Crusca ai moduli della burocrazia, e ogni aspetto del vivere comune – è storicamente legata ai protocolli sanitari di cosiddetta “riassegnazione di sesso” del dottor Money, il medico che, a metà degli anni Sessanta, fondò a Baltimora la “clinica per l’identità di genere”. L’invenzione lessicale di Money serviva alla promozione dei suoi esperimenti di cosiddetta “trasformazione sessuale” sui bambini: dopo aver inaugurato la pratica sulla pelle dei poveri gemellini Reimer (1969) e a dispetto della tragedia provocata (un duplice suicidio), egli la replicò in serie, giustificandola con l’idea che gli esseri umani sarebbero alla nascita psicosessualmente plastici e che la personalità maschile o femminile, lungi dal dipendere dal dato biologico (sesso), sarebbe un mero costrutto sociale (genere). La cosiddetta comunità scientifica internazionale, eterodiretta mediante l’infallibile esca del denaro, anziché relegare l’esperienza di Money nel libro degli orrori, la premiò e ne trasse rovinoso esempio.
Intanto, della trovata semantica partorita dalla mente perversa dello psico-chirurgo di Baltimora si appropriò il movimento femminista radicale, che fece del “genere” il proprio cavallo di battaglia per sostenere come le differenze tra maschio e femmina non siano naturali, ma sedimentate artatamente in seno a una società che, in quanto dominata dal rigido modello familiare, si configura come patriarcale, gerarchica, sessista: dove il maschio è padrone e la femmina oppressa. Declinando la lotta tra i sessi sulla falsariga della lotta di classe, le femministe identificano nella famiglia il primo nucleo della lotta di classe tra maschi padroni e femmine costrette in ruoli subalterni e schiave della riproduzione. L’obiettivo del movimento, tanto lucidamente (e luciferinamente) preconizzato dalla sua corifea Shulamith Firestone, era quindi la distruzione della famiglia, la liberazione sessuale totale (pedofilia e incesto compresi), il pieno controllo sulla riproduzione. L’abolizione della distinzione tra i sessi.
In questa prospettiva, l’omosessualismo è stato visto, e cavalcato, come il grimaldello in grado di scardinare l’idea di famiglia pur senza rinunciare alla sua rassicurante iconografia, tanto radicata nell’immaginario collettivo da rendere imprudente e velleitario un attacco frontale: così la facciata della famiglia resta in piedi e l’insegna non viene rimossa, ma il contenuto è polverizzato e artificialmente ridefinito. Rifratta in un caleidoscopio di parodie, essa, di fatto, esce dissolta. A garantire la fornitura di cuccioli d’uomo laddove per legge di natura vige la sterilità, interviene la tecnica: si può ordinare da catalogo un essere umano fabbricato in laboratorio, in modo da attribuirgli a ritroso la qualifica di “figlio”, ottenere di rimbalzo la patente di “genitore” e infine suggellare il tutto con la ragione sociale di “famiglia”. E il gioco di prestigio è fatto.
Ma la sfolgorante carriera del gender subisce una svolta davvero decisiva allorché, grazie all’accorto piano di un drappello di attivisti, approda all’ONU. Dale O’Leary, che ha assistito da testimone diretta ai lavori preparatori della conferenza di Pechino sulla donna (1995), nel suo libro “The gender agenda” racconta nel dettaglio come in quella sede sia stato realizzato un vero e proprio colpo di mano: approfittando del fatto che la nuova accezione di “genere” non esisteva in alcun dizionario di alcuna lingua, e che la maggior parte dei delegati alla conferenza era convinta fosse solo un sostituto gentile, più raffinato ed elegante, della parola sesso, si è riusciti a introdurla di soppiatto nei documenti ufficiali delle Nazioni Unite e così a promuovere in tutto il mondo – avvalendosi del prestigio e della carica intimidatoria dell’istituzione – la “agenda di genere”, ovvero lo spartito di un modo totalmente nuovo, e artefatto, di concepire la società, la politica, la cultura, la formazione.
La penetrazione in organismi potentissimi e già consacrati al controllo della popolazione e al contenimento demografico – ONU e vari enti satelliti, tra cui OMS, Unicef, Unesco, Save the Children, eccetera, tutti mastodonti burocratici coperti da subdoli intenti umanitari – ha fornito i mezzi per organizzare un enorme esercito ben equipaggiato, capace di imporre il programma su scala planetaria.
È accaduto, insomma, che un sistema di idee creato dal nulla dalla lucida demenza di un manipolo di visionari ha lucrato il potere immenso, la potenza economica e l’estensione capillare delle strutture sovranazionali generando quell’imponente fenomeno di illusionismo collettivo che ha indotto le masse, già adeguatamente stordite, a vivere dentro vere e proprie allucinazioni.
Ma si sa che, in ogni rivoluzione che si rispetti, il bersaglio d’elezione sono i più piccoli. Non per nulla, il traguardodi ogni progetto egemonico è l’invasione di campo della educazione. Lo aveva ben presente Bertrand Russel quando, nel suo “L’impatto della scienza sulla società” (1951), scriveva: «Di tutti i metodi, il più influente si chiama istruzione […]. Possiamo sperare che nel tempo, chiunque potrà convincere chiunque di qualunque cosa, a patto che possa lavorare con pazienza sin della sua giovane età e che lo Stato gli dia il denaro e i mezzi per farlo. La questione evolverà a lunghi passi allorché sarà posta in opera da scienziati sotto una dittatura scientifica. I socio-psicologi del futuro avranno a loro disposizione un certo numero di classi di scolari, sui quali collauderanno differenti metodi per far insorgere nel loro animo la incrollabile convinzione che la neve sia nera. Si constaterà rapidamente qualche problema. In primo luogo, che l’influenza della famiglia è un ostacolo. In seguito, che non si andrà molto lontano se l’indottrinamento non sarà iniziato prima dell’età dei dieci anni. In terzo luogo, che dei versi messi in musica ed eseguiti a intervalli regolari sono assai efficaci. In quarto luogo, che credere che la neve sia bianca dovrà essere visto come il segno di un gusto malato per l’eccentricità».
La cosiddetta “carriera alias” è l’ultima tappa di questa surreale guerra alla realtà, e sta oggi invadendo le scuole italiane con una accelerazione che induce a pensare come, forse, il disagio dirompente e diffuso che il biennio emergenziale ha provocato nei più giovani rappresenti una occasione d’oro di cui approfittare per un reclutamento straordinario. A ben vedere, il fenomeno “alias” riassume in sé tutti gli elementi costitutivi di una ideologia, come quella del gender, nata e cresciuta sotto il segno della manipolazione e della prevaricazione. E d’altra parte, una volta abbandonata ogni presa sul dato oggettivo, il trionfo dell’arbitrio individuale non può che scivolare verso l’abuso: per definizione, quello del più forte sul più debole e indifeso.
Anticipata, alla stregua di ogni altro fenomeno di costume, dalle avanguardie anglosassoni, la “carriera alias” non ci ha impiegato molto ad approdare nelle colonie, accompagnata dalla suggestione dei soliti slogan filantropici: doveroso tributo al diritto a essere se stessi, essa risponderebbe a una scelta di civiltà, a ineludibili esigenze di inclusione, a un’urgenza di verità. E chi osi avanzare qualche riserva, passa automaticamente nel novero dei retrogradi oscurantisti, dei cinici e degli inumani. Il copione rivoluzionario, per affermare il mondo all’incontrario, è sempre lo stesso.
La più parte dei docenti e dei genitori ignora di cosa veramente si tratti. Sì che, presa alla sprovvista, finisce travolta dalla sicumera di piazzisti ben addestrati a vendere la mercanzia all’ultimo grido. Il modello di regolamento della “carriera alias” che viene presentato nelle scuole è redatto dalla Rete Lenford, associazione di legali per i diritti LGBTQ, e viene sottoposto alla approvazione degli organi collegiali come fosse un novello evangelo. Vi si prevede che lo studente “disforico”, attraverso una semplice domanda rivolta al dirigente scolastico – una sorta di autocertificazione – possa acquisire, «senza esibire alcun tipo di documentazione né medica, né psicologica», il diritto a essere chiamato da tutti, all’interno della struttura scolastica, con un nome diverso da quello attribuito alla nascita e non corrispondente al sesso di appartenenza, nonché di vedersi riconosciuta da tutti, sempre all’interno della struttura scolastica, l’identità parallela prescelta. Se ha compiuto i quattordici anni, il tutto potrà avvenire all’insaputa dei genitori; solo per gli infraquattordicenni è prevista comunicazione (a cose fatte) alla famiglia. In sostanza, Ugo potrà pretendere che tutti a scuola lo considerino Marinella, semplicemente avvisando il dirigente di percepirsi femmina; così come Lia, sentendosi maschio, potrà diventare per tutti Arturo. L’identità elettiva conferirà il diritto di utilizzare i servizi igienici e gli spogliatoi riservati al genere prescelto. Ma – attenzione – la messinscena varrà soltanto entro il perimetro della scuola, perché all’esterno Ugo tornerà Ugo e Lia tornerà Lia, come vuole l’anagrafe.
E poiché alla elargizione di diritti non può non corrispondere una correlativa imposizione di doveri, nel regolamento si legge anche che «in caso di inosservanze, chiunque ne faccia esperienza o ne abbia (direttamente o indirettamente) notizia, anche in ragione di eventuali rapporti fiduciari, informerà tempestivamente la dirigenza scolastica, affinché siano adottati gli opportuni provvedimenti…». Insomma, il pacchetto include un sistema delatorio/inquisitorio/sanzionatorio affidato alla piena discrezionalità del dirigente. L’apprendista legislatore si ritiene superiore, oltre che al principio di legalità, anche a quello della certezza del diritto.
Ebbene, siamo di fronte alla pretesa, da parte di un soggetto evidentemente privo di alcun corrispondente potere, di imporre una pseudo-normativa speciale – riferita cioè a una categoria di studenti privilegiata (in barba al tanto sbandierato principio di uguaglianza) – capace di generare una bizzarra forma di extraterritorialità: dentro l’isolotto scolastico, che batte quindi una propria bandiera, tutti sono chiamati a tenere in piedi una finzione per assecondare la fantasia estemporanea di studenti che si dichiarano in crisi identitaria prima ancora di aver completato la fase dello sviluppo: quando cioè, di fatto, non hanno ancora vissuto nel corpo che vorrebbero rifiutare. Anziché adoperarsi per aiutarli a rimuovere le cause della mancata accettazione della propria identità sessuata e favorire la riconciliazione con se stessi e col proprio corpo, la scuola si presta a sponsorizzare a sua volta la “transizione sociale”, anticamera di quella ormonale e chirurgica, così concorrendo a istigare soggetti sani ad intraprendere un iter di medicalizzazione perenne.
Infatti, perlustrando il loro sito, si scopre che, tra gli scopi perseguiti dagli avvocati della Rete Lenford, vi è quello di promuovere «azioni giudiziarie che possono provocare un cambiamento delle norme giuridiche in senso più avanzato e quindi una trasformazione socialeverso l’inclusione e la non discriminazione».
Essi quindi, per loro esplicita dichiarazione, non operano secondo diritto nel quadro dell’ordinamento positivo vigente, ma esercitano attività di pressione per forzarne l’assetto.
Prova ne sia che sul sito stesso è presente anche un questionario, offerto anche alla fascia di popolazione 0-12 anni che, dopo aver fornito un articolato elenco di generi alternativi, suggerisce soluzioni per far fronte a ipotetiche eventuali discriminazioni. Tra le proposte figurano: «Identità alias obbligatoria in tutte le scuole di ordine e grado senza certificazione medico-psicologica (con autorizzazione della famiglia fino ai 14 anni)» o «Autorizzazione interventi chirurgici senza obbligo percorso psicologico».
In pratica, si ammette che un bambino sia libero di intraprendere scelte irreversibili (quali il blocco dello sviluppo per via farmacologica e la asportazione chirurgica di parti del corpo) senza nemmeno dover approfondire le motivazioni psicologiche sottese a una tale decisione. C’era una volta il principio di precauzione…
Si ricordi, per incidens, che nel 2018 è stato approvato in Italia, e inserito nei LEA, l’uso dei bloccanti (triptorelina) per «estendere lo spazio temporale di riflessione su di sé senza sperimentare il disagio di cambiamenti fisici incongruenti con la propria identità di genere». E che nel 99% dei casi l’assunzione del farmaco prelude alla via chirurgica, poiché quasi nessuno dopo quel passo torna indietro (mentre invece quasi tutti, crescendo, avrebbero semplicemente cambiato idea riallineandosi alla propria identità sessuata).
Non è difficile comprendere a chi giovi questa moda sciagurata che, al riparo del paravento filantropico, avanza a passo totalitario in groppa a una martellante propaganda allestita per incoraggiare in ogni modo la dissociazione, e sempre più precocemente: è il profitto delle multinazionali biotecnologiche e farmaceutiche a fare, ancora una volta, da sfondo e da benzina alla spinta verso la medicalizzazione a vita di corpi sani. Come effetto collaterale, per sovramercato, si spalancano le porte all’industria della fecondazione in vitro e delle biotecnologie legate alla riprogenetica, a cui la sterilizzazione di bambini e adolescenti assicura un esercito di nuovi consumatori.
Si capisce allora come le scuole siano praterie sterminate da espugnare, dove la miccia del contagio sociale trova il miglior conduttore: un ricco e variegato materiale umano, insieme alla forza persuasiva degli “esperti”, insieme al crisma dell’ufficialità dell’istituzione. L’amplificazione dei rischi depressivi e suicidari e della vittimizzazione da bullismo, che serve a terrorizzare e colpevolizzare le famiglie e tutto l’ambiente di riferimento, è ingrediente fondamentale della campagna promozionale. Intere categorie di professionisti (medici, psicologi, assistenti sociali) sono arruolate per sostenere l’operazione. Anche tra loro, guai dissentire, sennò diventi un mostro.
In questo momento, nell’Italia gregaria, la “carriera alias” procede col vento in poppa e nella più sconcertante acquiescenza generale.
Intanto, in Gran Bretagna, genitori di minorenni transgender hanno citato in giudizio il Dipartimento dell’Istruzione per avere consentito (o non avere fatto nulla per impedire) l’indottrinamento dei figli a opera di organizzazioni LGBTQ; per non essere stati informati per tempo sui loro supposti disagi; per non aver evitato danni prevedibili. Dove il concetto chiave è appunto la “prevedibilità” del danno. Che è danno immane, e irreversibile.
Non solo. La clinica Tavistock di Londra, il più grande centro al mondo nel trattamento della disforia di genere sui minori, è stata messa sotto accusa dai medici che vi hanno lavorato ed è stata infine costretta a chiudere i battenti.
Conviene dunque che gli istituti scolastici nostrani e chi li rappresenta, nel momento in cui prendono in esame la proposta di “regolamento” della “carriera alias”, abbiano adeguata contezza delle sue implicazioni poiché, avallandola, si espongono a precise, pesanti responsabilità.
In conclusione, dunque, si ritorna all’inizio di tutto: si ritorna a Money e all’abuso di minori perpetrato tramite la manipolazione e la prevaricazione. Il cuore del gender abita a Baltimora. Il suo intento è rapinare l’innocenza dei più piccoli, violentare la loro libertà morale e la loro sensibilità, ingannare la loro buona fede; è strappare dalle giovani menti l’evidenza delle cose, scardinando il normale e naturale processo di formazione identitaria, che dura una vita intera e dalla vita si lascia modellare fino alla fine, ma che poggia su presupposti oggettivi insuperabili. Perché c’è una realtà – c’è una verità – che ci precede e ci resiste e che a sfregiarla ci si fa del male.
Del resto, «il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso non esiste più» (Hannah Arendt).
NOTA
Si consiglia la visione del seguente video sottotitolato in italiano.
Su 7NEWS Spotlight, Liam Bartlett indaga il fenomeno della transizione di genere attraverso le testimonianze di chi l’ha sperimentata.
Il termine “genere” fino alla metà degli anni Sessanta stava a significare un criterio distintivo meramente grammaticale. L’origine della nuova accezione – quella che oggi pervade il lessico corrente, dai trastulli della Crusca ai moduli della burocrazia, e ogni aspetto del vivere comune – è storicamente legata ai protocolli sanitari di cosiddetta “riassegnazione di sesso” del dottor Money, il medico che, a metà degli anni Sessanta, fondò a Baltimora la “clinica per l’identità di genere”. L’invenzione lessicale di Money serviva alla promozione dei suoi esperimenti di cosiddetta “trasformazione sessuale” sui bambini: dopo aver inaugurato la pratica sulla pelle dei poveri gemellini Reimer (1969) e a dispetto della tragedia provocata (un duplice suicidio), egli la replicò in serie, giustificandola con l’idea che gli esseri umani sarebbero alla nascita psicosessualmente plastici e che la personalità maschile o femminile, lungi dal dipendere dal dato biologico (sesso), sarebbe un mero costrutto sociale (genere). La cosiddetta comunità scientifica internazionale, eterodiretta mediante l’infallibile esca del denaro, anziché relegare l’esperienza di Money nel libro degli orrori, la premiò e ne trasse rovinoso esempio.
Intanto, della trovata semantica partorita dalla mente perversa dello psico-chirurgo di Baltimora si appropriò il movimento femminista radicale, che fece del “genere” il proprio cavallo di battaglia per sostenere come le differenze tra maschio e femmina non siano naturali, ma sedimentate artatamente in seno a una società che, in quanto dominata dal rigido modello familiare, si configura come patriarcale, gerarchica, sessista: dove il maschio è padrone e la femmina oppressa. Declinando la lotta tra i sessi sulla falsariga della lotta di classe, le femministe identificano nella famiglia il primo nucleo della lotta di classe tra maschi padroni e femmine costrette in ruoli subalterni e schiave della riproduzione. L’obiettivo del movimento, tanto lucidamente (e luciferinamente) preconizzato dalla sua corifea Shulamith Firestone, era quindi la distruzione della famiglia, la liberazione sessuale totale (pedofilia e incesto compresi), il pieno controllo sulla riproduzione. L’abolizione della distinzione tra i sessi.
In questa prospettiva, l’omosessualismo è stato visto, e cavalcato, come il grimaldello in grado di scardinare l’idea di famiglia pur senza rinunciare alla sua rassicurante iconografia, tanto radicata nell’immaginario collettivo da rendere imprudente e velleitario un attacco frontale: così la facciata della famiglia resta in piedi e l’insegna non viene rimossa, ma il contenuto è polverizzato e artificialmente ridefinito. Rifratta in un caleidoscopio di parodie, essa, di fatto, esce dissolta. A garantire la fornitura di cuccioli d’uomo laddove per legge di natura vige la sterilità, interviene la tecnica: si può ordinare da catalogo un essere umano fabbricato in laboratorio, in modo da attribuirgli a ritroso la qualifica di “figlio”, ottenere di rimbalzo la patente di “genitore” e infine suggellare il tutto con la ragione sociale di “famiglia”. E il gioco di prestigio è fatto.
Ma la sfolgorante carriera del gender subisce una svolta davvero decisiva allorché, grazie all’accorto piano di un drappello di attivisti, approda all’ONU. Dale O’Leary, che ha assistito da testimone diretta ai lavori preparatori della conferenza di Pechino sulla donna (1995), nel suo libro “The gender agenda” racconta nel dettaglio come in quella sede sia stato realizzato un vero e proprio colpo di mano: approfittando del fatto che la nuova accezione di “genere” non esisteva in alcun dizionario di alcuna lingua, e che la maggior parte dei delegati alla conferenza era convinta fosse solo un sostituto gentile, più raffinato ed elegante, della parola sesso, si è riusciti a introdurla di soppiatto nei documenti ufficiali delle Nazioni Unite e così a promuovere in tutto il mondo – avvalendosi del prestigio e della carica intimidatoria dell’istituzione – la “agenda di genere”, ovvero lo spartito di un modo totalmente nuovo, e artefatto, di concepire la società, la politica, la cultura, la formazione.
La penetrazione in organismi potentissimi e già consacrati al controllo della popolazione e al contenimento demografico – ONU e vari enti satelliti, tra cui OMS, Unicef, Unesco, Save the Children, eccetera, tutti mastodonti burocratici coperti da subdoli intenti umanitari – ha fornito i mezzi per organizzare un enorme esercito ben equipaggiato, capace di imporre il programma su scala planetaria.
È accaduto, insomma, che un sistema di idee creato dal nulla dalla lucida demenza di un manipolo di visionari ha lucrato il potere immenso, la potenza economica e l’estensione capillare delle strutture sovranazionali generando quell’imponente fenomeno di illusionismo collettivo che ha indotto le masse, già adeguatamente stordite, a vivere dentro vere e proprie allucinazioni.
Ma si sa che, in ogni rivoluzione che si rispetti, il bersaglio d’elezione sono i più piccoli. Non per nulla, il traguardodi ogni progetto egemonico è l’invasione di campo della educazione. Lo aveva ben presente Bertrand Russel quando, nel suo “L’impatto della scienza sulla società” (1951), scriveva: «Di tutti i metodi, il più influente si chiama istruzione […]. Possiamo sperare che nel tempo, chiunque potrà convincere chiunque di qualunque cosa, a patto che possa lavorare con pazienza sin della sua giovane età e che lo Stato gli dia il denaro e i mezzi per farlo. La questione evolverà a lunghi passi allorché sarà posta in opera da scienziati sotto una dittatura scientifica. I socio-psicologi del futuro avranno a loro disposizione un certo numero di classi di scolari, sui quali collauderanno differenti metodi per far insorgere nel loro animo la incrollabile convinzione che la neve sia nera. Si constaterà rapidamente qualche problema. In primo luogo, che l’influenza della famiglia è un ostacolo. In seguito, che non si andrà molto lontano se l’indottrinamento non sarà iniziato prima dell’età dei dieci anni. In terzo luogo, che dei versi messi in musica ed eseguiti a intervalli regolari sono assai efficaci. In quarto luogo, che credere che la neve sia bianca dovrà essere visto come il segno di un gusto malato per l’eccentricità».
La cosiddetta “carriera alias” è l’ultima tappa di questa surreale guerra alla realtà, e sta oggi invadendo le scuole italiane con una accelerazione che induce a pensare come, forse, il disagio dirompente e diffuso che il biennio emergenziale ha provocato nei più giovani rappresenti una occasione d’oro di cui approfittare per un reclutamento straordinario. A ben vedere, il fenomeno “alias” riassume in sé tutti gli elementi costitutivi di una ideologia, come quella del gender, nata e cresciuta sotto il segno della manipolazione e della prevaricazione. E d’altra parte, una volta abbandonata ogni presa sul dato oggettivo, il trionfo dell’arbitrio individuale non può che scivolare verso l’abuso: per definizione, quello del più forte sul più debole e indifeso.
Anticipata, alla stregua di ogni altro fenomeno di costume, dalle avanguardie anglosassoni, la “carriera alias” non ci ha impiegato molto ad approdare nelle colonie, accompagnata dalla suggestione dei soliti slogan filantropici: doveroso tributo al diritto a essere se stessi, essa risponderebbe a una scelta di civiltà, a ineludibili esigenze di inclusione, a un’urgenza di verità. E chi osi avanzare qualche riserva, passa automaticamente nel novero dei retrogradi oscurantisti, dei cinici e degli inumani. Il copione rivoluzionario, per affermare il mondo all’incontrario, è sempre lo stesso.
La più parte dei docenti e dei genitori ignora di cosa veramente si tratti. Sì che, presa alla sprovvista, finisce travolta dalla sicumera di piazzisti ben addestrati a vendere la mercanzia all’ultimo grido. Il modello di regolamento della “carriera alias” che viene presentato nelle scuole è redatto dalla Rete Lenford, associazione di legali per i diritti LGBTQ, e viene sottoposto alla approvazione degli organi collegiali come fosse un novello evangelo. Vi si prevede che lo studente “disforico”, attraverso una semplice domanda rivolta al dirigente scolastico – una sorta di autocertificazione – possa acquisire, «senza esibire alcun tipo di documentazione né medica, né psicologica», il diritto a essere chiamato da tutti, all’interno della struttura scolastica, con un nome diverso da quello attribuito alla nascita e non corrispondente al sesso di appartenenza, nonché di vedersi riconosciuta da tutti, sempre all’interno della struttura scolastica, l’identità parallela prescelta. Se ha compiuto i quattordici anni, il tutto potrà avvenire all’insaputa dei genitori; solo per gli infraquattordicenni è prevista comunicazione (a cose fatte) alla famiglia. In sostanza, Ugo potrà pretendere che tutti a scuola lo considerino Marinella, semplicemente avvisando il dirigente di percepirsi femmina; così come Lia, sentendosi maschio, potrà diventare per tutti Arturo. L’identità elettiva conferirà il diritto di utilizzare i servizi igienici e gli spogliatoi riservati al genere prescelto. Ma – attenzione – la messinscena varrà soltanto entro il perimetro della scuola, perché all’esterno Ugo tornerà Ugo e Lia tornerà Lia, come vuole l’anagrafe.
E poiché alla elargizione di diritti non può non corrispondere una correlativa imposizione di doveri, nel regolamento si legge anche che «in caso di inosservanze, chiunque ne faccia esperienza o ne abbia (direttamente o indirettamente) notizia, anche in ragione di eventuali rapporti fiduciari, informerà tempestivamente la dirigenza scolastica, affinché siano adottati gli opportuni provvedimenti…». Insomma, il pacchetto include un sistema delatorio/inquisitorio/sanzionatorio affidato alla piena discrezionalità del dirigente. L’apprendista legislatore si ritiene superiore, oltre che al principio di legalità, anche a quello della certezza del diritto.
Ebbene, siamo di fronte alla pretesa, da parte di un soggetto evidentemente privo di alcun corrispondente potere, di imporre una pseudo-normativa speciale – riferita cioè a una categoria di studenti privilegiata (in barba al tanto sbandierato principio di uguaglianza) – capace di generare una bizzarra forma di extraterritorialità: dentro l’isolotto scolastico, che batte quindi una propria bandiera, tutti sono chiamati a tenere in piedi una finzione per assecondare la fantasia estemporanea di studenti che si dichiarano in crisi identitaria prima ancora di aver completato la fase dello sviluppo: quando cioè, di fatto, non hanno ancora vissuto nel corpo che vorrebbero rifiutare. Anziché adoperarsi per aiutarli a rimuovere le cause della mancata accettazione della propria identità sessuata e favorire la riconciliazione con se stessi e col proprio corpo, la scuola si presta a sponsorizzare a sua volta la “transizione sociale”, anticamera di quella ormonale e chirurgica, così concorrendo a istigare soggetti sani ad intraprendere un iter di medicalizzazione perenne.
Infatti, perlustrando il loro sito, si scopre che, tra gli scopi perseguiti dagli avvocati della Rete Lenford, vi è quello di promuovere «azioni giudiziarie che possono provocare un cambiamento delle norme giuridiche in senso più avanzato e quindi una trasformazione socialeverso l’inclusione e la non discriminazione».
Essi quindi, per loro esplicita dichiarazione, non operano secondo diritto nel quadro dell’ordinamento positivo vigente, ma esercitano attività di pressione per forzarne l’assetto.
Prova ne sia che sul sito stesso è presente anche un questionario, offerto anche alla fascia di popolazione 0-12 anni che, dopo aver fornito un articolato elenco di generi alternativi, suggerisce soluzioni per far fronte a ipotetiche eventuali discriminazioni. Tra le proposte figurano: «Identità alias obbligatoria in tutte le scuole di ordine e grado senza certificazione medico-psicologica (con autorizzazione della famiglia fino ai 14 anni)» o «Autorizzazione interventi chirurgici senza obbligo percorso psicologico».
In pratica, si ammette che un bambino sia libero di intraprendere scelte irreversibili (quali il blocco dello sviluppo per via farmacologica e la asportazione chirurgica di parti del corpo) senza nemmeno dover approfondire le motivazioni psicologiche sottese a una tale decisione. C’era una volta il principio di precauzione…
Si ricordi, per incidens, che nel 2018 è stato approvato in Italia, e inserito nei LEA, l’uso dei bloccanti (triptorelina) per «estendere lo spazio temporale di riflessione su di sé senza sperimentare il disagio di cambiamenti fisici incongruenti con la propria identità di genere». E che nel 99% dei casi l’assunzione del farmaco prelude alla via chirurgica, poiché quasi nessuno dopo quel passo torna indietro (mentre invece quasi tutti, crescendo, avrebbero semplicemente cambiato idea riallineandosi alla propria identità sessuata).
Non è difficile comprendere a chi giovi questa moda sciagurata che, al riparo del paravento filantropico, avanza a passo totalitario in groppa a una martellante propaganda allestita per incoraggiare in ogni modo la dissociazione, e sempre più precocemente: è il profitto delle multinazionali biotecnologiche e farmaceutiche a fare, ancora una volta, da sfondo e da benzina alla spinta verso la medicalizzazione a vita di corpi sani. Come effetto collaterale, per sovramercato, si spalancano le porte all’industria della fecondazione in vitro e delle biotecnologie legate alla riprogenetica, a cui la sterilizzazione di bambini e adolescenti assicura un esercito di nuovi consumatori.
Si capisce allora come le scuole siano praterie sterminate da espugnare, dove la miccia del contagio sociale trova il miglior conduttore: un ricco e variegato materiale umano, insieme alla forza persuasiva degli “esperti”, insieme al crisma dell’ufficialità dell’istituzione. L’amplificazione dei rischi depressivi e suicidari e della vittimizzazione da bullismo, che serve a terrorizzare e colpevolizzare le famiglie e tutto l’ambiente di riferimento, è ingrediente fondamentale della campagna promozionale. Intere categorie di professionisti (medici, psicologi, assistenti sociali) sono arruolate per sostenere l’operazione. Anche tra loro, guai dissentire, sennò diventi un mostro.
In questo momento, nell’Italia gregaria, la “carriera alias” procede col vento in poppa e nella più sconcertante acquiescenza generale.
Intanto, in Gran Bretagna, genitori di minorenni transgender hanno citato in giudizio il Dipartimento dell’Istruzione per avere consentito (o non avere fatto nulla per impedire) l’indottrinamento dei figli a opera di organizzazioni LGBTQ; per non essere stati informati per tempo sui loro supposti disagi; per non aver evitato danni prevedibili. Dove il concetto chiave è appunto la “prevedibilità” del danno. Che è danno immane, e irreversibile.
Non solo. La clinica Tavistock di Londra, il più grande centro al mondo nel trattamento della disforia di genere sui minori, è stata messa sotto accusa dai medici che vi hanno lavorato ed è stata infine costretta a chiudere i battenti.
Conviene dunque che gli istituti scolastici nostrani e chi li rappresenta, nel momento in cui prendono in esame la proposta di “regolamento” della “carriera alias”, abbiano adeguata contezza delle sue implicazioni poiché, avallandola, si espongono a precise, pesanti responsabilità.
In conclusione, dunque, si ritorna all’inizio di tutto: si ritorna a Money e all’abuso di minori perpetrato tramite la manipolazione e la prevaricazione. Il cuore del gender abita a Baltimora. Il suo intento è rapinare l’innocenza dei più piccoli, violentare la loro libertà morale e la loro sensibilità, ingannare la loro buona fede; è strappare dalle giovani menti l’evidenza delle cose, scardinando il normale e naturale processo di formazione identitaria, che dura una vita intera e dalla vita si lascia modellare fino alla fine, ma che poggia su presupposti oggettivi insuperabili. Perché c’è una realtà – c’è una verità – che ci precede e ci resiste e che a sfregiarla ci si fa del male.
Del resto, «il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso non esiste più» (Hannah Arendt).
NOTA
Si consiglia la visione del seguente video sottotitolato in italiano.
Su 7NEWS Spotlight, Liam Bartlett indaga il fenomeno della transizione di genere attraverso le testimonianze di chi l’ha sperimentata.